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Le catacombe di Cu Chi

A Cu Chi oggi si va per passare una giornata di turismo e di festa; quarant’anni fa ci si andava per morire. E’ un centro ad una settantina di chilometri a nord ovest di Saigon. Niente di speciale come città di medie dimensioni se non fosse per i tunnels e le trappole, drammatiche testimonianze di guerra. I turisti sono allegri, fanno una scampagnata, pic-nic sull’erba e uno sguardo ai residui bellici. Molte foto con grandi sorrisi dall’inferno.

Sì, perché quarant’anni fa qui c’era un inferno che neppure Dante sarebbe riuscito ad immaginare. Si moriva ogni giorno di sventagliate di mitra, bombe a grappolo, napalm, gas tossici, lanciafiamme, bombardamenti dal cielo. E tutt’intorno una vegetazione lussureggiante che piano piano veniva bruciata con i diserbanti chiamati “agente arancio”.

Sono arrivato a Cu Chi i primi giorni di novembre dello scorso anno. In Vietnam volevo andare non per ragioni turistiche ma per vedere un popolo che dal 1940 non aveva conosciuto un solo giorno di pace. Prima i cinesi, poi i giapponesi, poi i francesi, poi gli americani e di nuovo i cinesi. Tant’è che se chiedete ad un abitante del posto cosa pensa della guerra del Vietnam, vi risponde : “di quale guerra parla?”.

“Di quella che va dal 1967 al 1975”.

“Ah, la guerra americana! Noi la chiamiamo così. Beh, allora gli americani venivano da nemici e li abbiamo combattuti e vinti. Oggi vengono da amici e le nostre porte sono aperte”. Umiltà e fierezza si mescolano nelle parole dei vietnamiti, dei giovani soprattutto che guardano al futuro e hanno voglia di dimenticare le ricorrenze patriottiche che il partito comunista non perde occasione di celebrare. Gli anziani, quelli sopravvissuti al periodo bellico, sono più riservati e spesso chiusi nella rassegnazione di una vita che sta per finire dopo molti dolori e poche gioie.

L’autobus era partito di primo mattino da una stradina vicino all’ hotel Continental di Saigon, oggi ribattezzata Ho Chi Minh City. L’albergo è famoso perché vi alloggiavano i corrispondenti di guerra già dagli ultimi tempi dell’Indocina francese, finita catastroficamente nella verde vallata di Dien Bien Phu nel 1954. I giornalisti stranieri andavano di rado nelle zone di combattimento; preferivano starsene in albergo ad aspettare i dispacci delle autorità politiche e militari e su quelli creavano i loro pezzi di corrispondenza sempre targati “ dal nostro inviato al fronte”. Il bar dell’albergo era il loro principale luogo d’incontro e di scambio di informazioni, tra un whisky e l’altro. E i lettori di giornali in occidente ammiravano quegli inviati “di guerra” in pantofole. Certo c’erano delle eccezioni, ma in genere i coraggiosi non avevano poi il tempo né l’occasione di raccontare.

Verso le dieci l’autobus mi lascia all’ingresso del campo di Cu Chi, museo degli orrori a cielo aperto. Il cielo è plumbeo, minaccia pioggia, una di quelle che si trasformano presto in un violento temporale tropicale. E’obbligatorio servirsi di una guida locale; parla inglese. Ovunque nel mondo gli americani abbiano combattuto, hanno lasciato in eredità innanzitutto la loro lingua. Vengo aggregato ad un gruppetto di turisti scandinavi e introdotto in uno stanzone con una grande pianta del luogo; e lì comincia la storia.

Cu Chi è uno dei punti terminali di una rete sotterranea di cuniculi che si estende per oltre 150 chilometri, scavata con le mani, il piccone e la zappa in più di venticinque anni. Dai sobborghi di Ho Chi Minh City arriva fino al confine cambogiano ed è stata utilizzata dalla guerriglia prima contro i francesi, poi contro il regime dittatoriale del Vietnam del sud ed infine contro gli

americani. I cuniculi, vere e proprie catacombe, sono disposti anche su quattro piani, senza luce, stretti e bassi a misura di vietnamita, cioè di un uomo magro e basso di statura. Qua e là si può

uscire all’aperto attraverso botole mimetizzate nella foresta. Alcuni accessi si trovano addirittura sotto l’acqua del fiume. Un rudimentale sistema di aerazione consentiva di respirare anche sottoterra, mentre in ambienti più ampi si cucinava, si curavano i feriti, si preparavano le bombe. Attraverdo i tunnels, gli uomini delle catacombe e i rifornimenti arrivavano dalla Cambogia fino al cuore di Saigon per gli attentati.

Io ho provato ad entrare in uno di questi cuniculi, camminando carponi, sulle mani e sulle ginocchia, ma dopo pochi metri mi sono fermato attanagliato da un senso di claustrofobia e anche di paura del buio. Non sono riuscito a girarmi per uscire e ho dovuto fare marcia indietro fino a riguadagnare il cielo aperto con un grosso sospiro di sollievo. E’ inimmaginabile come migliaia e migliaia di uomini abbiano potuto abitare quelle viscere della terra ogni volta in attesa di uscire per improvvise imboscate contro il nemico e poi correre di nuovo a nascondesi.

Gli americani nei primi tempi non sospettavano l’esistenza dei tunnels e costruirono la loro più importante base terrestre proprio vicino a Cu Chi. Ma notte dopo notte i loro soldati venivano uccisi mentre dormivano nelle tende da squadre di vietcong che sparivano dopo ogni incursione. E allora uscivano le pattuglie alla caccia dei rivoltosi, camminavano nel buio con fatica, aprendosi varchi nella boscaglia, col dito nervoso sul grilletto dei fucili d’assalto. Nessuno davanti, nessuno a destra, nessuno a sinistra. E poi all’improvviso uomini invisibili aprivano il fuoco alle spalle: fine del pattugliamento. Immaginavo tutto questo mentre procedevo dietro la guida su un sentiero aperto nella boscaglia ad uso turisti.

Quando gli americani si resero conto dell’esistenza dei tunnels decisero di distruggerli seppellendovi dentro gli uomini-topo che li abitavano. Cominciarono con i bombardamenti, i defolianti, i gas tossici e quel miciadiale mix di diossina e napalm che chiamavano “agente arancio” dal colore dei loro contenitori di metallo. E’ a causa di questo che la vegetazione non cresce più in vaste aree tra Cu Chi e la frontiera cambogiana mentre la diossina ha inquinato le falde acquifere che, contaminando a valle le risaie, ha fatto nascere migliaia di bambini deformi. Nel museo della guerra di Saigon ho visto foto agghiaccianti.

Ma tutto questo non fu sufficiente agli americani per eliminare il problema Cu Chi; ed allora approntarono squadre speciali chiamate “green rats” – topi verdi – soldati di taglia piccola che entravano nei cuniculi a caccia del nemico. Furono stragi continue. Nelle viscere della terra rimangono sepolti tanti combattenti di una parte e dell’altra. Ricordo di aver letto qualche anno fa le lettere di alcuni americani che nella zona combattevano non solo contro il nemico ma anche contro serpenti, vedove nere, ragni velenosi e formiche rosse giganti abituate a banchettare con pelle umana. E attraverso le lettere mi raffiguravo i volti di giovanissimi ragazzi di leva sbalzati all’improvviso dalla tranquilla e comoda vita degli States a quella terra di inferno e di morte, diventati uomini all’improvviso alla prima raffica di mitra. “Devi sparare per primo, altrimenti non avrai una seconda possibilità” : era questo il ritornello che si sentivano ripetere dai capi. Andavano allo sbaraglio senza preventivo addestramento in nessuna accademia militare: l’addestramento avveniva sul campo, sul campo della morte. E dall’altra parte altri uomini, magri, mal vestiti, spesso denutriti, che affrontavano il destino con la convinzione dogmatica di adempiere ad un sacro dovere religioso: dopo tante invasioni di eserciti stranieri i vietnamiti volevano la libertà e l’indipendenza.

La ferocia della guerra è scritta anche nelle terribili trappole che la guida mi ha mostrato. Tutte perfettamente mimetizzate sotto pavimenti di foglie e cespugli. In una si apre la botola e il corpo dell’incauto soldato precipita su lance appuntite e vi rimane infilzato come in uno spiedo. In un’altra c’è una ruota girevole fatta di ferri acuminati: il corpo, cadendo dall’alto, si infilza e viene rigirato sotto la ruota, impossibile tirarlo fuori se non si distrugge prima il meccanismo; ma nel frattempo l’essere umano muore dissanguato tra atroci dolori.

Mentre camminavo, triste e pensieroso, dietro la guida sul sentiero di morte, una signora di un altro gruppetto, diceva ad un’amica con accento americano: “Sono contenta di questo viaggio, il Vietnam è un paese incantevole, si mangia bene e lo shopping è superbo”.

Le sorprese a Cu Chi non erano finite. Disseminati tra alberi e cespugli i residuati bellici tolti al nemico: carri armati del 25ma divisione di fanteria USA, mitragliatrici, crateri enormi aperti dai dombardamenti dei B-52, contenitori arancio abbandonati e vuoti. Ma lì dove il nuovo Vietnam ha voluto dare ai visitatori una vaga innocente replica della guerra è nel poligono di tiro realizzato in un angolo del campo. Non ti chiedono se hai il porto d’armi o se hai mai sparato, ma ti offrono di provare un AK-47 sovietico o un M 16 americano: 14 dollari ogni dieci cartucce. Sono due fucili mitragliatori d’assalto: il primo è il famoso Kalashnikov, l’arma più venduta nel mondo da quando è stata inventata nel 1947 dall’ingegnere militare che gli ha dato il suo nome; facile da comprare sui tanti mercati ufficiali o clandestini del pianeta. L’M 16 è americano e in dotazione alla NATO.

Ho voluto provare anch’io: quattro interi caricatori, due per fucile. Ho messo le cuffie e al riparo di una torretta – il temporale tropicale era al massimo – ho sparato in direzione di cassette di legno distanti forse una trentina di metri. Non ne ho centrata nemmeno una perché il rinculo era micidiale e appena premevo il grilletto partiva una raffica; finché non togli il dito il fucile continua sparare pallottole lunghe una decina di centimetri, di quelle che passano un corpo umano da parte a parte, entrano facendo un piccolo foro ed escono in una voragine dopo essere esplosi dentro. Non c’è mai stato scampo per chi ha avuto la sfortuna di incontrare un AK-47 o un M 16, un’atroce morte soltanto. E mentre premevo il grilletto mi saliva alle narici l’odore acre e pungente della polvere da sparo, sconvolgente come un cataclisma, eccitante come una droga. E bisognava essere drogati per affrontare una guerra di quel tipo, di umano non c’era proprio nulla. E l’assordante rumore della sventagliata del mitra – insopportabile alle orecchie malgrado le cuffie – stimolava a sparare ancora, a sparare di più. La mia è stata l’esperienza di poco più di mezz’ora, ma ho capito che avere nelle mani un’arma di quel tipo ha un primo effetto incontrollabile: ti rende aggressivo anche se sei per natura mansueto.

Ma oggi che sono passati più di trent’anni dalla fine delle ostilità, che gli americani sono tornati in Vietnam da amici e investitori, che non ripetono più il vecchio ritornello secondo il quale combattevano in quel paese per difendere la libertà e la democrazia dell’occidente – per evitare il cosiddetto effetto domino – oggi anche quei ricordi sono stati banalizzati: alla fine della visita, ad attendere i turisti c’un negozio di souvenirs e un banco per i gelati. In un’atmosfera surreale il visitatore scaccia dalla mente ricordi e rimorsi – per chi ce li ha; come dire: abbiamo scherzato. Il temporale non si ferma, tonnellate d’acqua allagano il campo, scendono nelle catacombe, oggi come ieri, ma lì sotto non c’è più alcun vivente, solo morti lasciati marcire sotto terra. E dall’inferno di ieri, oggi solo immaginato, il turista torna alla realtà e prosegue allegro, con la vita dentro, la sua gita. Che i morti di Cu Chi siano serviti a questo?