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I fantasmi di Halong

I fantasmi esistono: benvenuti nel loro regno, benvenuti in un mondo fantastico che supera qualunque immaginazione, qualunque fiaba.

Sono le sei del mattino. Trang Van mi sveglia con un caffè denso. Non sono abituato al sapore forte del caffè vietnamita; e in più nella tazzina trovo un fondo nerissimo alto un dito. La bevanda non è stata filtrata. Penso per un attimo che l’espresso italiano non abbia eguali nel mondo e sia l’unica medicina che ti consente di aprire gli occhi al nuovo giorno con un minimo di ottimismo. Ma è solo un attimo. Ho chiesto io a Trang Van di svegliarmi così presto, non voglio perdermi l’alba.

L’alba? Quale alba? Tutt’intorno è solo nebbia, fitta, grigia, scura. Non so più dove sono, ho perso il senso dell’orientamento La giunca sembra galleggiare nel nulla. L’acqua del mare è immobile e non vedo neppure dove finisce la cima che sicuramente ci tiene attraccati da qualche parte. Ieri sera avevamo trovato una spiaggetta circondata da rocce. Avevamo fatto il fuoco, cucinato dei vegetali, un po’ di pollo e poi a dormire.

La giunca non è grande, forse una quindicina di metri di lunghezza, panciuta al centro, due alberi diseguali con le tipiche vele orientali fatte di tela e steccate col bambù che le fanno sembrare farfalle; in mezzo un tettuccio arrotondato fatto anch’esso di bambù e tela. Tre giacigli di fortuna e una confusione di scatole, pentole, cibarie, un fornelletto a gas, qualche panno steso. Questa è la casa di Trang Van e della moglie. Lui potrebbe avere sessantanni, o quaranta o settanta: chi può dirlo? La sua faccia è uguale a quella di tanti altri vietnamiti, solcata da profonde rughe di cartapesta. Quando sorride non si vedono denti. La moglie è come lui: si riconosce che è una donna solo perché ha la faccia più tondeggiante e i capelli un pò lunghi alla maschietta, il marito è quasi calvo.

“Ci vorranno ore prima che tu possa vedere il sole – mi dice Trang Van. Vuoi tornare a dormire”?

“Grazie, preferisco aspettare sveglio. E poi dopo quel caffè così forte non ho più sonno. Ma dimmi, Trang: dove hai imparato a parlare francese”?

“Tutti quelli della mia età parlano un po’ di francese. Sono andato a scuola quando il Vietnam era una colonia di Parigi ed era obbligatorio studiare la loro lingua”.

“Dunque hai molti…anni; scusami, non è impertinenza ma solo voglia di conoscere le tue esperienze”.

“Dovrei averne una settantina. Non so di preciso, i certificati li tenevano i francesi e sono andati distrutti. Ma poi che importanza ha? Per quel che ho visto nella mia vita son vissuto anche troppo”.

“Ma allora qualcuno ti ha parlato di Bien Bien Phu”!

Trang Van sorride con una smorfia e dopo una lunga esitazione:”Io, io… c’ero a Dien Bien Phu quel maledetto giorno, se è questo che vuoi sapere. Per il vostro calendario era il 7 maggio del 1954”.

“Dunque hai combattuto per liberare il paese”?

“In un certo senso sì, ma non ho mai sparato. Qualche mese prima giunsero ad Halong alcuni commissari politici del partito comunista vietnamita. Noi vivevamo qui sulle nostre giunche e la

guerra non l’avevamo ancora vista. Tutti i maschi, dai quindici anni in su furono arruolati e una parte di noi fu portata sulle colline intorno a Dien Bien Phu. Avevamo il compito di trasportare sulle alture pezzi di artiglieria e cannoni smontati a dorso d’asino. Si lavorava di notte e in silenzio. Giù nella valle c’era la fortezza dei francesi – diecimila si diceva – e la pista di atterraggio per gli aerei. Arrivati in cima alle colline le armi venivano rimontate dai nostri combattenti. Tutto avvenne all’insaputa del nemico. Quando se ne accorse era troppo tardi, noi lo circondavamo da ogni parte e cominciammo a bombardarlo e mitragliarlo dall’alto e da ogni direzione. La pista per gli aerei fu resa inservibile e tutte le vie di comunicazione tagliate. I francesi erano in trappola, per loro fu una catastrofe. Quel giorno finì per sempre l’Indocina francese”.

“Perché hai detto che quel giorno fu maledetto? Non eravate felici di essere diventati liberi?”

“Oh, felici sì, ma la felicità è durata poco, perché da allora in poi siamo sempre stati in guerra contro qualcuno”.

La conversazione portava via il tempo e la moglie pensò bene di farci mangiare una zuppa con piccole tagliatelle di riso e pezzettini di pollo: i vietnamiti lo chiamano pho. Ne mangiai due ciotole, rifiutando cortesemente un’altra tazza di caffè.

La nebbia a poco a poco sbiancava e diradava. Eravamo attraccati ad uno sperone di roccia in una piccola insenatura. Del paesaggio non avevo visto quasi nulla arrivando la sera prima: era già buio. Ma ora, a mano a mano che la visibilità aumentava di metro in metro, vedevo apparire e sparire intorno a me funghi di roccia scagliati nel mare. Fantasmi che venivano dal nulla e nel nulla tornavano come per magia. Alcuni coperti di vegetazione. Uno a destra, un altro a sinistra, un terzo più avanti. Non li distinguevo ancora bene ma la loro sagoma appariva dalla nebbia come il fantasma del padre di Amleto. E dal livello del mare salivano per decine di metri, ed ecco la sommità. Quattro, cinque, sette, disseminati tutt’intorno e il sole che penetrava la residua nebbia ne disegnava i contorni illuminandoli da dietro. I faraglioni. Galleggiavano su un mare calmo sempre più chiaro, più verde, più cristallino. I faraglioni. A Capri ne abbiamo tre e sono bellissimi, ad Halong molti di più.

“Più di mille” dice Trang Van.

“Mille? Non ci posso credere”.

“Ci crederai, perché adesso cominciamo a navigare in questa immensa baia e per i tre giorni che sarai con noi potrai ammirare queste bellissime sculture che esistono solo qui, il posto più bello del mondo. Ed è patrimonio dell’umanità. Lo ha detto l’Unesco”.

La giunca cominciò a navigare lentamente, sospinta da un fuoribordo di quattro cavalli con un piede lungo non meno di tre metri, posizionato appena un po’ obliquo sul pelo dell’acqua: l’elica, che da noi scende verticale rispetto all’asse del natante, nelle imbarcazioni vietnamite è sempre lontana dallo scafo, assicurando meno vibrazioni e maggiore manovrabilità: o almeno così dicono i pescatori del paese. Le vele quel mattino non potevano esserci di aiuto, di vento ce n’era poco.

Navigammo così, lentamente, tutta la mattina in mezzo ai faraglioni senza mai vedere il mare aperto perché dietro ad ogni faraglione ce n’era un altro e un altro ancora, senza fine. L’acqua lanciava scintille di sole che danzavano sul mare sempre più blu.

“Sono le perle dei dragoni” disse Trang Van.

“Perle”?

“Non sai la leggenda”?

“Ai miei occhi di cartesiano sembrano formazioni calcaree”:

“Non puoi guardare il mondo solo con gli occhi della ragione: impazziresti con tutto quel che succede. La vita è più leggera se la guardi con fantasia e puoi anche sognare perché il sogno è il tuo mondo, un mondo tutto tuo che custodisce la tua verità. Dunque, devi sapere che in un tempo

molto lontano il nostro paese stava per essere invaso dal mare da un feroce nemico che veniva dal nord”.

“I cinesi – dissi io. Hanno dominato il Vietnam per mille anni”.

“Può darsi – rispose Trang Van. Ma la leggenda parla di molto tempo prima. Allora noi eravamo sotto la protezione del dio del cielo e a lui chiedemmo aiuto. E dio ordinò alla madre dei dragoni di scendere sulla terra per aiutarci; e lei così fece con tutti i suoi figli che gettarono in mare tante perle che si trasformarono in scogli, rocce, promontori e molte si abbatterono sulle navi nemiche distruggendole. La nostra terra era salva e i dragoni con le loro perle non vollero più lasciare questo angolo di paradiso e sono rimasti qui con tutti i loro magici, incantati isolotti che tu chiami faraglioni. La parola Halong significa ‘dove i dragoni scendono in mare’”.

“Sai molte cose, Trang”.

“Ho insegnato ai bambini che vivono sull’acqua in questa baia”.

“Allora sei un maestro” dissi.

“Non ho nessun titolo ma mi è sempre piaciuto leggere e quel che leggevo lo raccontavo agli altri. Io sono stato membro del partito comunista e il partito ha sempre tenuto la cultura in grande considerazione”.

“Oggi non è più così”? chiesi.

“Penso che sia sempre così, anche se vedo in giro tanta voglia di materialismo, soprattutto nei giovani; vogliono lo scooter e il telefonino e la radiola. Ma è inevitabile, la nuova generazione non ha conosciuto le tragedie della guerra e non sta neppure più ad ascoltare i nostri racconti. Vogliono vivere, vivere e basta. Anche noi volevamo vivere ma per questo ideale moltissimi sono morti. Comunque io non mi occupo più di nulla. Ho sempre cercato di essere onesto ed ora è giunto il tempo della stanca rassegnazione degli onesti. Sono vecchio e so che tra non molto incontrerò tra le fate della magica baia di Halong anche la strega nera che mi porterà via”. E sorrise senza denti.

Nel primo pomeriggio si era alzata una brezza consistente, non c’era più bisogno del piccolo fuoribordo, le vele ad ali di farfalla andavano benissimo.

Nel tardo pomeriggio la nostra giunca arrivò ad un villaggio sull’acqua: una trentina di chiatte legate le une alle altre e assicurate con cime a spuntoni di roccia. Sopra ogni chiatta una casetta di legno, non tutte in buone condizioni. Panni stesi, ciotole impilate, donne che lavavano nell’acqua del mare e bambini che si tuffavano e risalivano e ancora si tuffavano.

“E’ uno dei tre villaggi della baia. Chi vive qui è anche nato qui, come me, e ci resta per tutta la vita” disse Trang Van.

“Ma non avete paura del mare, delle tempeste, della pioggia? Sembrano imbarcazioni così fragili. E le maree?”.

“Qui siamo riparati e protetti dai faraglioni e il mare aperto è lontano. Certo i problemi non mancano. Le tempeste arrivano dal Golfo del Tonchino ma non sono molte. La pioggia non ci crea problemi, viviamo sempre in mezzo all’acqua. Quanto alle maree, che possono toccare anche i quattro metri, non fanno altre che spingere in su o in giù le nostre imbarcazioni”.

“E per mangiare?” chiesi.

“Mangiamo soprattutto pesce che peschiamo noi stessi. Ce n’è in abbondanza e lo vendiamo in alcuni mercati galleggianti della baia in cambio dei prodotti della terra che ci mancano. Non ci sono problemi per chi sa accontentarsi. Certo la vita in città sembra essere più comoda, ma quando sei nato qui non sai più rinunciare alla libertà, al mare, al canto degli uccelli: è una ricchezza che altri non hanno”.

La baia di Halong, che si trova a 150 chilometri ad est di Hanoi, è stata spesso al centro della storia vietnamita. Il fiume rosso, che sfocia nel non lontano porto di Haiphong, ha portato al mare orde di invasori provenienti dalle montagne del nord e dalla Cina. La Cina, l’amica-nemica

di migliaia di anni di storia. Se il Vietnam di oggi è riunificato e indipendente, c’è ancora qualcuno dalle parti di Pechino che lo considera invece una provincia cinese distaccatasi per qualche tempo dalla madrepatria.

Dalla giunca salimmo sulla piccola chiatta di Trang Van. Il sole era al tramonto: di fronte a noi si stagliava incastonato tra due faraglioni che lo sorreggevano, mentre i raggi infuocavano la scia del mare che da lontano giungeva fino a noi. Sembrava tutto irreale: la tranquillità, la purezza dell’aria, gli arabeschi degli uccelli marini, anche i dragoni della leggenda che avevano creato la baia erano lì, fantasmi concreti nella concretezza delle rocce.

Rientravano al villaggio i piccoli sampan che erano partiti il mattino presto per andare a vendere il pesce della notte e riportavano un po’ di frutta, verdura, scatolame. E poi c’erano alcuni sampan con pochi prodotti di artigianato, soprattutto tovaglie, salviette e intarsi di legno che giovani ragazze, con il caratteristico cappello di paglia a forma di cono, cercavano di vendere a quelle poche barche di turisti i cui pacchetti di viaggio consentivano di passare ad Halong solo qualche ora senza neppure immaginare la grandezza della baia né godere dell’ospitalità degli abitanti delle chiatte galleggianti.

La sera nel villaggio sull’acqua si accendevano piccole luci al petrolio che con il loro tremolio confondevano i contorni delle cose. I faraglioni alle nostre spalle allungavano le ombre come fantasmi protettori. Poi il silenzio totale, appena rotto da qualche sgusciar del mare in mezzo alle chiatte. E alle prime ore del mattino partivano i pescatori a ritirar le reti o gettarne di nuove. Era una notte di luna piena e la sua luce diafana dava corpo ad altri fantasmi, quelli della fantasia che correvano tra i faraglioni insieme ai dragoni per cacciar via il nemico da quel luogo di pace e di bellezza. Impossibile dormire!

Nei due giorni successivi era in programma la visita ad alcune grotte. Nella baia di Halong ce ne sono molte e grandi; la natura calcarea delle rocce crea stalattiti e stalagmiti di ogni dimensione e forma; il vento e il mare hanno fatto il resto.

Cominciamo con la grotta Hang Sung Sot, il nome è scritto su un cartello all’ingresso, una ventina di metri sul livello del mare. Sono tre enormi saloni che si possono percorrere facendo lo slalom tra stalattiti e stalagmiti. In ogni angolo puoi vedere con la fantasia un cane oppure un pesce, oppure un guerriero, quello che vuoi. La luce del giorno che filtra da un’enorme bocca proietta ombre multiformi, talvolta così buie da nascondere pericolosi crepacci. Nel bel mezzo c’è una stalagmite bianca e rosa nella quale i vietnamiti vedono il simbolo fallico dell’uomo e le donne lo prendono per un buon augurio di fertilità.

E poi la grotta Hang Bo Nau, Hang Trong e il terzo giorno la Hang Dau Go, quella che i francesi chiamavano la Grotte des Merveilles e i vietnamiti “dei pali di legno”. Già perché anche qui c’è una storia; il Vietnam è pieno di storie e leggende. Dunque siamo alla fine del 1300, era nostra. I mongoli, scendendo lungo il fiume Bach Dang, stanno per conquistare il nord del paese, ma il generale vietnamita Tran Hung Dao ha un’idea geniale: di notte, durante la bassa marea pianta in mezzo al fiume centinaia di pali di bambù appuntiti, appena sotto il livello dell’acqua. Fatto giorno provoca gli invasori facendosi inseguire dalle loro navi lungo il fiume. Ma dopo qualche ora arriva la bassa marea e le imbarcazioni dei mongoli rimangono impigliate tra i pali di bambù alla mercè dei vietnamiti che li sconfiggono. La leggenda dice che in quella grotta l’eroe Tran Hung Dao fece nascondere i pali prima di utilizzarli.

La sera il mio amico mi sbarca sulla terraferma. L’avventura è finita. Dal mondo dei dragoni e dei fantasmi ritorno alla banale realtà delle automobili.